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10 anni, praticamente un secolo

Ogni periodo ha degli usi, costumi, stili di vita suoi propri. Scorre il tempo e con esso cambia ed evolve tutto. A partire dalla cosiddetta Rivoluzione Industriale, soprattutto per le attività umane (ma anche per l’intero ecosistema), i cambiamenti hanno cessato di essere continui e striscianti (occorreva tempo per notarli) per diventare rapidi e tumultuosi. La cultura e l’arte sono attività umane e seguono, anch’esse, questa tendenza. Quando si è immersi in un fenomeno risulta difficile notarne caratteristiche e cambiamenti. Lasciando agli esperti analisi ed approfondimenti, tentiamo una riflessione su quanto è avvenuto (e sulle ragioni) nella nostra realtà locale, ossia sui dieci anni di attività del Comitato “Voltana in Mostra”.
L’arte è quella parte della cultura che gratifica particolarmente. Piace soprattutto perché emoziona, stimolando i nostri sensi e la nostra mente. Il riferimento è l’uomo che, anche quando non lo desidera ardentemente, si rapporta, attraverso un gesto creativo, con i suoi simili. È tutta una umanità che, in piccolo o su grande scala, interviene, affinché l’arte esista e si affermi. Un dipinto, una scultura, un brano musicale cessano di essere un feticcio individuale, per diventare un bene collettivo attraverso la condivisione. È importante il pubblico, ossia la partecipazione delle persone o l’intervento di uomini e donne che sanno apprezzare quanto proposto. Il catalizzatore o il collante, tra le due parti, sono gli amici, i piccoli collezionisti, i mercanti d’arte, i critici…
È possibile cogliere gli aspetti di un fenomeno, enfatizzandone le caratteristiche.
Cerchiamo, allora, di individuare gli elementi che possono aiutarci a comprendere il momento che viviamo.
Le idee, le certezze condivise, che hanno animato il secolo scorso hanno, all’alba del terzo millennio, una presa e diffusione assai modesta o perché sconfitte dalla Storia o perché messe in crisi dalla diffusione delle idee e dei modelli veicolati dai mass media, posseduti dai gruppi dominanti. Infatti, nelle società consumistiche (e cosiddette Occidentali), la Nazione, lo Stato, l’ideologia, il Partito, la religione non sono più i riferimenti assoluti (temperati o resi flessibili dal buon senso o dalle convenienze opportunistiche) di pochi decenni addietro. Ora l’aspetto caratterizzante è il relativismo assoluto. Sono subentrate una disponibilità e una flessibilità totale. Questo rende intrinsecamente “debole” ogni argomentazione. Una vittima della situazione è la sequenza logica che vuole che ad una “causa” faccia seguito un “effetto” concatenando gli accadimenti. Un esempio, per chiarire: “Il mercato è il culmine dell’evoluzione”. Accettato acriticamente il presupposto, ne risulta che nessuno parla più di tempo di vita, di qualità dell’esistenza, di carichi e ritmi di lavoro, di congruità delle retribuzioni, di equità nei rapporti di scambio. Con un simile (ridicolo) retroterra culturale l’uomo rischia di essere posseduto dal lavoro. La convinzione, secondo la quale “l’uomo ha bisogno anche del lavoro”, diventa “il lavoro esiste per l’uomo e l’uomo che non lavora non esiste e, pertanto, non ha senso parlare di diritti”. I ritmi artificiali, imposti da esigenze produttive, si sovrappongono e si sostituiscono ai ritmi naturali. Poche aziende transnazionali governano l’economia planetaria e determinano gli stili di vita dei popoli. La politica è relegata ad un ruolo marginale; purtroppo, in primis, nella mente di coloro che dall’esistente situazione trarranno unicamente svantaggi o danni.
Le sovrastrutture vengono considerate immodificabili. L’uomo torna ad essere, per i suoi simili, un antagonista, un nemico, un lupus. Le parole: “libertà, uguaglianza, fraternità” sono desuete o rivisitate per depotenziarne la carica dirompente. Ed ancora: strumentali rivisitazioni storiche tolgono ogni valore alla divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario).
Le parole stesse diventano inadeguate o strumento non più idoneo ad assolvere lo scopo. I micro linguaggi, i tecnicismi, i riti ed i simboli, poi, accomunano quanti appartengono alla medesima classe o corporazione. Sono un habitus così ben portato che fa sentire a disagio quando non lo si indossa, fino ad avvertire un senso di costrizione, se e quando forzati ad adottare i codici di comunicazione del quotidiano. Del resto il linguaggio comune è spesso un non senso, poiché veicola notizie da altri selezionate e già commentate; pertanto è una ripetizione e, quindi, è inutile. Un esempio: le parole “intervento umanitario” facevano immaginare la figura di medici, operatori del volontariato, missionari. Ora nella mente si erge il marine, con alle spalle Bagdad bombardata o New Orleans allagata. Similmente “democrazia” era un termine che indicava un governo legittimato dal popolo. Ora è una realtà che può essere esportata (o imposta in modo coercitivo) da uno Stato ad un altro Stato. Si parla quando si ha qualche cosa da comunicare, meglio se originale e non formale. Diventa temerario parlare di eventi non mass mediati. Solo quanto è mass mediato esiste. Occorre una idoneità che certifichi ciò che è degno di essere comunicato, ossia una preselezione, una interpretazione autentica adeguatamente commentata. Così può accadere che un evento non sia proporzionale alla sua vera importanza, ma alla possibilità di fare audience. È l’enfasi o l’insistenza, con cui gli stessi mass media lo ripropongono, che fa la differenza. Qualche esempio: un tragico attentato terroristico in una grande città ha più spazio della malasorte toccata ad un intero continente. Similmente un fatto di cronaca nera ha più spazio di rilevanti riforme dello Stato sociale.
Sono sempre più rare le opportunità per un sereno confronto o per una silenziosa riflessione soggettiva. Abbondano, invece, le occasioni per spettacolarizzare i rapporti e le relazioni interpersonali. Sono tornati in auge pensatori per i quali, se non esiste una verità assoluta, non può neppure esistere una realtà certa ed oggettiva. Se la realtà è una recita allora occorrono due ruoli distinti: quello degli attori (pochi) e quello del pubblico (la maggioranza), attivi, per antonomasia, i primi, assolutamente passivi (educati ad osservare in silenzio, con la partecipazione limitata all’intensità dell’applauso finale) i secondi.
Si reclama e declama il rispetto della privacy quando tutti sanno che molte delle cose che ci circondano (programmi dei computer e dei cellulari, telecamere, ecc.) ci controllano e possono sempre documentare ad altri le nostre abitudini.
Merita considerazione la crisi economica di questi anni. Quando il reddito diventa insufficiente, si cerca di recuperare risorse attraverso un di più di lavoro. Diventa ordinario fare lavoro straordinario. Questo comporta minor tempo per se stessi e le cose che ci sono care. Poi si devono fare delle scelte; i “tagli” sono per i consumi voluttuari: l’informazione ed il divertimento. La risposta corretta vorrebbe un di più di solidarietà e di uso della testa. Si osserva, invece, un crescente individualismo egoistico e si penalizzano la conoscenza, l’informazione, la formazione.
Pertanto l’arte, essendo cultura, sapere che produce piacere, viene doppiamente penalizzata.
Quanto descritto serve a comprendere la situazione voltanese e ad esserne orgogliosi.
È vero che i visitatori delle iniziative promosse non sono più quelli di un tempo, ma non può essere diversamente. Anzi il calo di partecipazione e di pubblico è avvenuto in ritardo rispetto ad altre realtà. A Voltana la nostra tradizione popolare ed il senso di appartenenza ad una comunità sono state le radici che hanno consentito una forte resistenza.
C’è, poi, un silenzio degli artisti, conseguente i condizionamenti che la situazione complessiva esercita. Una vecchia, ma attualissima lirica di Salvatore Quasimodo (nella quale il poeta fa sua l’espressione di sconforto di un profeta ebraico durante l’esilio del suo popolo a Babilonia) descrive efficacemente la situazione: “Abbiamo appeso ai salici le nostre cetre… Come potremmo cantare in terra straniera?”
Ecco la risposta soggettiva alla quotidianità: c’è stata una generazione che ha amato circondarsi di cose belle, personali, originali, che davano lustro e restituivano emozioni e gratificazioni. Ora una generazione che non ha solidi riferimenti e vede la realtà continuamente modificata e ridefinita ricerca delle emozioni altrove. Pensiamo ai viaggi: sono l’occasione per abbandonare una realtà e conoscerne una diversa. Sono un’opportunità per interiorizzare emozioni che nessuno potrà togliere.
Questo che ci è dato è un tempo di transizione. L’alba è di nuovo prossima.
Abbiamo esposto (con enfasi) una situazione. Non abbiamo descritto i rimedi. Abbiamo, però, una certezza: questo od un altro Comitato riuscirà a proporre altre iniziative per una nuova primavera di creatività.


Mario Paganini
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