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  IL TACCUINO DI MARIO  
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Dimmi il suo nome.

No, non era arrabbiata. Era calma, rassegnata, sconsolata, distrutta, ma - dal tono perentorio della voce - traspariva che era ben decisa ad ottenere ciò che voleva.
“Sai bene che ti conosco a fondo. Stiamo insieme da quando eravamo ragazzi… Ti conosco meglio io, di quanto tu stesso non ti conosca. Io so che hai una relazione. Tante cose, in questi ultimi tempi, mi hanno fatto sorgere dei sospetti. Poi sono arrivati i sorrisini dei compaesani e le loro strane domande… Poi i tuoi ritardi, le tue assenza e le maldestre giustificazioni di copertura, offerte dai tuoi colleghi d’ufficio. Ma ti rendi conto di quanto sei stato squallido quando hai iniziato a portarmi dei fiori e dei cioccolatini per gli anniversari?! Per anni ti sei dimenticato di compleanni e di festività, poi, improvvisamente…Verme schifoso, volevi darmi ad intendere che provavi un rinnovato interesse per la mia persona?! Ma quanto sei stato squallido e viscido!? Dopo vent’anni, trascorsi da reclusi in casa, hai perfino iniziato a proporre “cenette romantiche” ed “uscite” per il fine settimana… Volevi farmi credere che io, per te, contavo ancora qualche cosa… Che io, per te, esistevo ancora… Che ti piacevo e che mi desideravi… Di la verità! Ti sentivi in colpa, ma eri così vigliacco da non reggere il peso del tuo tradimento! Con qualche tenerezza pensavi di blandirmi, di distrarmi, di confondermi… No, voglio quel nome! Sii uomo, almeno in questo! Dimmi il suo nome! Me lo devi!”
Stavano di fronte l’uno all’altra, vicinissimi. Lo sguardo di lei, che per attimi lunghissimi era rimasto fisso al pavimento, con le ultime parole era per gli occhi di lui.
Ahi, la voce di lui proprio non voleva saperne di uscir dalla gola. Sì, lui sapeva di essere un vigliacco. Sì, lui si sentiva come un vaso di coccio tra tanti di metallo. Ma, per una volta, lui sperava in cuor suo… Finalmente gli riuscì di sussurrare un nome, ma per accorgersi immediatamente che la sua voce era talmente flebile che neppure lui era in grado di comprendere quale nome avesse tentato di pronunciare!
Lei, con un sorriso di compatimento, portò lo sguardo nuovamente verso il pavimento.
Dopo quest’ultima meritata umiliazione, con un soprassalto di dignità, lui inspirò e cacciò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni. Il tono della voce rimase basso, ma - comunque - udibile.
Il capo di lei era rimasto chino, ma non sufficientemente da impedire a lui di coglierne lo sguardo.
Sembravano gli occhi di un felino, pronto a spiccare il balzo sulla preda. Erano anche gli occhi di un cecchino, mentre traguarda nel mirino la sua vittima: freddi e spietati.
Gli anni trascorsi avevano naturalmente lasciato il segno anche su di lei, ma quei suoi occhi, azzurri come il cielo d’estate, ora trasmettevano qualche cosa di gelido, di inumano.
“Quella culona inchiavabile di Melinda?! No, non ci credo… Non è possibile… Dimmi che te la intendevi con Laura o con Roberta. Che sei rimasto irretito da quella gran troia di Caterina. Ma Melinda no, non posso crederlo! Quella insulsa di Melinda…“
In effetti, tra tutte le comuni amiche e conoscenti, Melinda era la meno appariscente, la più triste, la più insignificante. Era di compagnia, perché era… utile a far numerosa la compagnia! Ma la sua unica e grande qualità era… non aver qualità.
Oggettivamente c’era ben poca sostanza nell’aver intrapreso una relazione con Melinda.
Ma in lui svanì quasi immediatamente la voglia di difendere se stesso o la passione per Melinda così come di difenderne la dignità, scagliandosi contro l'epiteto di “culona” affibbiato alla sua fiamma (non del tutto immeritatamente), perché la tradita aveva iniziato a ridere. Prima sommessamente, poi fragorosamente e di gusto.
Lui la fissò, cercando una risposta in quegli occhi di un favoloso azzurro oltremare.
Quella di lei, però, non era assolutamente la risata isterica di una donna che aveva accusato il peso e l’emozione dell’evento. Non era assolutamente la risata di una donna “crollata” emotivamente nella circostanza.
Ed allora, perché mai lei stava ridendo?
“Ruggiero!”. Lei aveva posto fine alla sua risata scandendo quelle poche sillabe. Il silenzio durò qualche interminabile secondo. Poi lei riprese: “Sì, proprio con la lettera “i” !”
Lui prima si rifiutò di comprendere quelle parole, poi si sentì come se un cecchino l’avesse colpito più volte.
“Pensa, mio caro… Che genere di ambiente può aver prodotto un tipo che si chiama Ruggiero?! Ma ti rendi conto che sia quelli dell’Ufficio Anagrafe sia i suoi genitori ignoravano che, in italiano, la “i” in Ruggero non va scritta! Sì, proprio lui, il mitico idraulico di tante barzellette sguaiate! Sì, quell’artigiano, con la bottega in fondo alla via, che tu sbeffeggi e che trovi più simile ad un gorilla che ad un essere umano. Ebbene, lui - su di me - esercitava il fascino di un irsuto giocatore di rugby. E mentre tu flirtavi con Melissa che - la conosco bene!- non ti ha concesso nulla, anche perché poco o nulla aveva da darti, io mi sono fatta sbattere da Ruggero”. “Anzi, dal possente Ruggiiiero!” precisò con enfasi.
No, non era vero! Doveva essere tutto un sogno, anzi: un incubo. Non era assolutamente possibile che la "sua metà" fosse, in realtà, un demonio di lussuria. E si sentì come se altri colpi del cecchino gli stessero devastando il corpo.
Il respiro gli mancava. Anche il cuore aveva un battito irregolare. Tutto attorno a lui stava diventando confuso. La voce di lei andava e veniva; era acuta e squillante, oppure cavernosa e incomprensibile.
Lui era estremamente confuso. Ascoltate alcune parole, per un attimo si illuse di essere in uno stato confusionale ancor più grave. Non gli era possibile realizzare che la sua compagna parlasse, con disinvoltura, di “sfinteri esplorati e deflorati” e di “cavità riempite”. Proprio con lui che, invece, ben conosceva il rigore e la monotonia che governavano la loro intimità di coppia. Il suo mondo ora, inevitabilmente, gli crollava rovinosamente addosso.
No, non era morto. Avrebbe preferito mille volte essere morto. Era tutto così irreale: da una parte il suo tradimento, tentato e non consumato, e dall’altra - invece - la sua compagna, capace di un adulterio satanico, sprofondato in un abisso di lussuria…
Ma la testa pesante, il respiro affannoso, il sudore freddo, il dolore alla schiena per l'impatto sul duro pavimento, gli avevano tolto ogni dubbio: lui era ben vivo!
Sentì la voce preoccupata di Melissa: “Guarda, si muove! Sta vomitando… Beh, comunque è un buon segno!”
Di risposta sentì la voce acida di lei, della sua perfida compagna: “Basta, non ne posso più… Ultimamente è sempre di questa… Beve e non regge l’alcol! Si appisola sulla sedia, mentre è a tavola, in compagnia… Mangia da ingordo, fino ad affogarsi! Come vuoi che finisca?! Con lui steso sul pavimento, tra piatti, bottiglie e vomito… È una scena indegna, che non sono più disposta a sopportare. Usciamo dal locale, mi vergogno di questa parvenza di uomo! Melissa, andiamocene!"


di Mario Paganini
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