Articolo Nr.61
del 23/12/2007
Identità e omologazione

È un piccolo segno ortografico eppure un accento fa la grande differenza tra la “e” disgiuntiva e la “è” di uguaglianza. Oggi il rischio è che non esista identità, o che - ed è la medesima cosa - l’identità coincida con l’omologazione.
Nel nostro territorio (nessuno è in grado di dire ancora per quanto possa durare) di certo esiste ancora una forte identità, una tradizione, una cultura popolare, esiste nel modo di fare, di vivere, di lavorare, di cooperare, in una parola di “essere romagnoli”.
Questa è la nostra peculiarità ed è inscindibilmente legata alla nostra Storia, al nostro territorio ed alle tante e molteplici “lotte” su esso combattute, siano esse state di tipo ambientale e di bonifica oppure di tipo politico e di classe, comunque furono tutte di “liberazione” dal bisogno, dall’oppressione. Ebbene, questo “essere romagnoli” possiamo osservarlo, riscontrarlo ancora tra i nostri giovani? Oppure toccherà anche a noi, come a tante altre “minoranze”, la sorte di stemperarci, giorno dopo giorno, in un modello amorfo, in un individualismo finalizzato ad un consumismo globalizzante e distruttivo?! E se i nostri giovani li sentiamo diversi e lontani, quali i motivi e di chi la colpa?
Questa “congiura” per la perdita delle identità, più o meno volontaria, viene portata avanti su più fronti. In primo luogo sull’organizzazione del lavoro e del tempo di vita (o di non lavoro), poi attraverso i mass-media ed alcuni interventi mirati. Sono i modelli di convivenza sociale e culturale proposti. Sono l’istruzione e l’educazione impartita. Spesso vengono sottovalutati, eppure sono importantissimi, su di un popolo gli effetti dell’informazione e del linguaggio.
In Europa, nel 1989 sono crollati dei muri (e di questo dobbiamo rallegrarci) e dei miti, ma sono venute meno tutte le ideologie e tutti i “credo”. Sembra che la storia (dell’Occidente e, quindi, del mondo intero) sia finita e che il fine ultimo della storia sia il capitalismo e la globalizzazione.
Che lo creda o predichi o dica chi ne trae vantaggio è comprensibile, ma che pochi o nessuno avanzino dubbi o vi si opponga è sconcertante.
Il “relativismo” è diventato un assoluto; è di sicuro una dottrina filosofica, ma è diventato anche una religione, una prassi politica, un “pensiero debole” ma che guida il modo di vivere di tanti, per i quali l’incoerenza, l’opportunismo, le “piccole quotidiane furbizie” o il disimpegno sono diventati valori e virtù.
“Disponibilità”, “flessibilità”, “mobilità” sono le parole, i concetti chiave, verità incontestabili e tendenze incontrovertibili.
Tra i poveri c’erano i proletari, che non avevano la proprietà dei mezzi di produzione, ma - almeno - avevano una “prole” da difendere e una “dura” (inizialmente si intendeva protratta nel tempo, poi ha acquisito significati “rivoluzionari” e “violenti”) “lotta di classe” in cui credere.
Altri, soprattutto tra i cristiani, avevano i “beni”, segno della benevolenza divina, da gestire e fare fruttificare con saggezza, finalizzati anche ad una crescita sociale ed all’aiuto di tanti fratelli bisognosi.
Il nostro territorio aveva una sua lingua, con parole precise e la comunicazione aveva sempre uno scopo immediatamente dichiarato. Principalmente serviva a trasmettere informazioni, conoscenze, saperi. Serviva come cemento relazionale, trasmetteva sensazioni ed emozioni. Era il modo per rinsaldare affetti familiari e rapporti di clan, per chiarire all’altro o allo straniero dove erano i limiti ed i confini, utile - quindi - per conservare relazioni civili e rapporti di (buon) vicinato.
Anche chi “raccontava favole” aveva un ruolo, uno stato sociale ed un modo, uno stile per proporsi (di casolare in casolare). Inimmaginabile era un suo impegno in politica o nella finanza! Non mancavano le truffe, ma - se oltre alle parole si veniva meno agli impegni assunti da una stretta di mano - il tradimento poteva portare a gravissime conseguenze.
Ora assistiamo alla spogliazione dell’informazione, all’inutilità della comunicazione, alla soppressione o eliminazione o distorsione delle parole.
I mass-media risultano inutili, fornendo principalmente una informazione incentrata su episodi marginali di cronaca (poco importa se talvolta truculenti fatti di “cronaca nera” o morbose curiosità di “cronaca rosa”, sconfinanti nel porno/erotico).
Con una sintesi estrema: in alcuni casi i mass-media non solo fanno perdere tempo, ma fanno anche perdere la capacità di pensare!
Vengono riscritte pagine di Storia e soppresse parole. Sono coniate parole nuove per dare un nuovo decoro a vergogne che si pensava relegate al passato.
Proviamo a cercare, nel nostro dialetto, il corrispondente di “lavoro precario” , “contratti di formazione”, “emigrazione”. Oppure vediamo se “bracciantato”, “lavoro a cottimo”, “mobilità permanente”, “esodo forzato” hanno oggi nuovi sinonimi.
Chi considera l’informazione un bene utile per garantirsi il conseguimento dei propri obiettivi vuole privarci del passato.
Stiamo rischiando di diventare un popolo senza memoria, o - peggio - che si vergogna della propria Storia o che subisce la Storia riscritta in funzione di chi vince le elezioni.
Non dobbiamo rassegnarci a vivere unicamente in un presente dilatato a dismisura; i nostri giovani hanno il diritto di pensare ad un futuro, hanno il diritto di fare progetti con un orizzonte temporale su più anni. Se neghiamo ai giovani (= il futuro) la possibilità di fare progetti (cosa diversa dal coltivare sogni e/o fantasie) noi tutti non avremo un futuro.
È tristissima una società che costringe e rassegna i giovani al ruolo di “bamboccioni”.
Lo sanno bene i nostri vecchi: un fiume ha bisogno di due sponde solide. La natura ha prodotto una sorgente, delle acque capricciose e/o ristagnanti, sappiamo dov’è il mare. Usando il cervello ed i muscoli (le colmate e le carriole) nella Bassa Romagna abbiamo domato la natura e abbiamo fatto una civiltà, un società, una Storia.
Non tradiamo le nostre radici; dobbiamo - con orgoglio - riconoscere che nella nostra identità c’è il nostro futuro.


Mario Paganini