Perchè scrivere? Sono possibili tantissime risposte. Esistono, infatti, molteplici motivazioni che portano una persona a diventare uno scrittore. Per Francesco Silvagni era un bisogno, uno dei numerosi modi possibili per rapportarsi con le altre persone. Accettare l’altro. Riconoscere nell’altro un soggetto pensante. Confrontarsi con l’altro. Lanciare un’idea, una proposta e attendere, con fiducia, talvolta perfino con impazienza, le altrui risposte. Saper suggerire ai molti, coltivando la speranza che siano numerosi coloro che raccolgono e che, poi, siano disponibili a farsi coinvolgere. Si può scrivere anche per se stessi, si può scrivere per far conoscere un argomento o per descrivere una situazione, si può scrivere “insieme” e “per gli altri”.
Poi, da sempre, lo scritto è fatto per rimane, mentre le parole...
Quando Francesco Silvagni era “il maestro Silvagni” ben sapeva il valore dello scrivere, dell’insegnare a scrivere, del saper scrivere bene, dello scrivere per confrontarsi con gli altri. Da tutto questo e la “necessità” di una pubblicazione (periodica) il passo è breve. E se la pubblicazione è fatta “con” e “dai” suoi alunni è meglio. Dove il “fatta” risulta essere massimamente pertinente, poichè tanti adolescenti, con un maestro come Silvagni, si trasformavano in cronisti, in articolisti, in tipografi e in distributori del “loro giornalino”, uno spazio nel quale poter dire la loro. Ecco che “diciamo la nostra” risultava essere il risultato cartaceo di molto entusiasmo, ma anche il frutto di tanto impegno ed altrettanta fatica mentale e, talvolta anche, fisica.
Francesco Silvagni avrebbe benissimo potuto, in tante circostanze, far pesare la differenza formativa e culturale. Stare allo stesso livello della controparte sovente non riesce facile. Tante volte, istintivamente, si sarebbe portati ad essere superiori agli altri. Talvolta, invece, si incorre nel rischio opposto, ossia, per qualche tempo, di recitare il ruolo del disponibile, dell’essere subalterno, di trasformarsi in un “servo suo”. Francesco Silvagni propone, con costanza, l’uguaglianza; propone che tutti riconoscano di essere - gli uni come gli altri - ad un pari livello. Un pari livello nella dignità, che a tutti è dovuta; nel rispetto dato e richiesto verso ciascuno. Questo nello scorrere degli anni, oltre che un suo insegnamento è stata una sua coerentemente e costantemente testimonianza.
“Se sai chi sei e che cosa vuoi, è sufficiente esporlo correttamente e chiaramente. Non si deve esitare e neppure ci si deve trattenere dal confrontarsi, civilmente, con gli altri e con le loro diverse, talvolta opposte, convinzioni”.
Poi la “buona fede”, che deve essere presunta, ma che attende un riscontro. Vigilare, per intuire le reali intenzioni dell’altro. Senza attendere di doversi ricredere. Senza attendere di toccare con mano che, forti di un pensiero ragionato e di tradizioni vissute, le “nostre aperture, il nostro ottimismo, la nostra fiducia, si trasformino nell’azione sprovveduta di ingenui o di sempliciotti”.
Le caratteristiche riscontrabili nei molti scritti del “mèstar” Silvagni sono: uno stile asciutto, essenziale, discorsivo, scorrevole, talvolta ammiccante e brioso (pensiamo alla temeraria correlazione tra “medici, malanni e malandrini” o anche ad un nesso tra “i malati” nel corpo ed “i pazzi” nella mente. E questi sono i titoli, sottilmente ironici, di due sue pubblicazioni storiografiche a carattere locale).
Lo stile del “maestro” si manifesta nel piacere di stare in un’aula nella quale ha saputo creare un clima positivo. Ed il “maestro” non esita a trasferire il medesimo stile ed impegno per creare un clima positivo nel ritrovarsi a tavola, rilassati. Nelle opportunità che possono scaturire da un incontro conviviale. Un incontro non di ghiottoni, sebbene essere dei buongustai non sia un difetto od una colpa grave! Infatti Silvagni vede nella mensa un “territorio neutrale”, un mezzo e un momento, di elezione e di predilezione, per iniziare una condivisione, una comunione. Il pranzo diventa il luogo per parlare e per confrontarsi. Un luogo anche per leggere e del quale scrivere. Ricordo, a tal proposito, il gradevole opuscoletto da lui coordinato “Vox clamantis in dessert”.
Per il Silvagni, il bene vivere porta al bene essere. E, con moto ricorsivo, quando le persone si impegnano seriamente, riescono poi a stare bene, con se stesse e con gli altri; l’intera comunità vive bene.
Nuovamente ricordo come nei libri del “maestro” un buon numero di pagine costituiscono la fedele documentazione delle sue affermazioni. Oppure sono la solida base sulla quale il Silvagni ha realizzato la sua costruzione. Oppure ha immaginato un progetto, che vorrebbe realizzare e per il quale chiede il supporto fattivo e concreto di tutti coloro che riesce a raggiunge. Questo sempre. Con garbo il “maestro”, sottolinea l’oggettività (la realtà certa ed incontrovertibile, che emerge da un documento, da una fotografica, ecc.) e la soggettività delle conclusioni. Va notato che, ogni qual volta non fosse possibile contestare l’oggettività, si hanno, poi, buone probabilità che si possa giungere a concordare sulle risposte o sulle soluzioni ai problemi.
Il “maestro” non esista: lui è arci convinto che si possa sempre fare, coinvolgendo altri, qualche cosa di utile per molti o di bello ed istruttivo per tanti; a prescindere dalle proprie convinzioni e dal proprio credo, ma mossi da buona volontà e da spirito costrutivo. Perchè “insieme” si può e si dovrebbe agire, così da poter lasciare ai posteri una comunità e un mondo (la grande comunità) migliore di quello che, ciascuno di noi, ha ricevuto ed abitato.
Soffermandosi sulla documentazione, come in precedenza evidenziato, sempre riportata fedelmente (integralmente, separata e scevra da commenti) nei libri e negli scritti di Silvagni, abbiamo modo di apprendere e apprezzare la meticolosa citazione dei nomi, dei luoghi e dei fatti. Così come di cogliere l’utilità, storica e sociale, di una puntigliosa individuazione caratterizzante i momenti e le date. Il tutto avviene a 360 gradi: può essere l’elenco degli alunni, delle numerosi classi scolastiche che si susseguono nel tempo; così come può essere una ricetta di cucina. Chi non ricorda il simpatico discettare sui “cappelletti” e sui “tortellini”? Silvagni riesce a cogliere, anche nell’alimentazione e nella cucina, il segno e l’espressione di una cultura (popolare e non soltanto). E da questa intuizione la necessità di una approfondita ricerca, nel caso, inevitabilmente, sulle ricette e sulla composizione dell’impasto contenuto nei “cappelletti” e nei “tortellini”. Nulla è banale. Nulla è trascurato.Non manca perfino una “raccomandazione” del “maestro” relativa al numero consigliato (o raccomandato alle “azdore” Romagnole della Bassa pianura ) nel caso fossero una pietanza, servita nel brodo oppure servita “asciutta, con il sugo”. Divertito e divertente il “maestro” ci racconta anche delle “mistuchine”, il dolce povero ricavato utilizzando la farina delle castagne. E del “Folletto”, un prodotto edulcorante, leggermente alcolico, rigorosamente rosso (ottenuto con “una ricetta segreta, gelosamente custodita da una locale farmacia”), che dava una nota di colore, arricchendo anche di sapori, i tanti dolci fritti, caratteristici di alcuni momenti di festa durante l’anno.
Celebrare una persona è ricordarla. Nel caso di Silvagni è stato renderne vivo e vitale l’insegnamento. Il “maestro” ha iniziato e persorso, con tanti di noi, una strada. Tutta la comunità Voltanese, qui, oggi dimostra di averne appreso e condiviso l’insegnamento. Grata, tutta Voltana saprà continuare su quella strada.
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